Eretto in posizione strategica su di una vasta platea rocciosa a picco sul lago, al centro di una zona interessante economicamente, il Castello di Bracciano aveva ed ha tutti i numeri per sostenere un ruolo di primo piano fra quelli della regione.
Così come lo vediamo oggi, possiamo definirlo come un castello “dell’ultima generazione”, di tipo prevalentemente militare: fu infatti costruito (o meglio, completamente rifatto) da Napoleone Orsini, che nel 1470 iniziò l’ampliamento della vecchia rocca dei precedenti signori del luogo, i Prefetti di Vico.
Gli Orsini avevano ricevuto l’investitura del feudo di Bracciano da Marino V Colonna nel 1419, poco dopo l’elezione del nobile romano al trono pontificio nel Concilio di Costanza, che mise fine alle convulse vicende dello scisma d’Occidente. Si trattò di un atto di indubbia generosità, o meglio di intelligente politica, se consideriamo l’irriducibile rivalità che per secoli aveva messo l’una contro l’altra le potenti famiglie principesche dei Colonna e degli Orsini. Per di più, il riconoscimento ufficiale da parte del papa costituiva il momento conclusivo di una fase di amplissima espansione, nel corso della quale i possedimenti della famiglia Orsini erano giunti ad estendersi dalle coste tirreniche fino all’Abruzzo, occupando così vasta parte del Lazio settentrionale.
Collocata nel cuore di questo territorio, Bracciano fu scelta come sede di una nuova dimora che non solo fosse garanzia di solida difesa, ma costituisse anche un simbolico monumento alle risorgenti fortune degli Orsini.
La necessità di adattarsi non solo alla costruzione precedente, ma anche alle caratteristiche del terreno, è alla base della scelta di una pianta irregolare, che tuttavia non compromette in alcun modo l’equilibrio dell’insieme. I problemi posti dalla preesistenza della rocca altomedievale dei precedenti signori, i Prefetti di Vico, furono risolti brillantemente, accostandole ad ovest un nuovo corpo di fabbrica; il dislivello fra i due edifici fu colmato raccordandoli con ambienti scavati nella rocca e con una scarpata di contenimento. La differenza fra i due corpi di fabbrica è evidenziata dal tipo di muratura, a grossi blocchi di lava basaltica, giustapposti senza intonaco nell’antica rocca, mentre le ali rinascimentali sono costruite in laterizi.
Oltre che per la sua salda eleganza, il complesso risultante colpisce per il suo rapporto volumetrico con l’ambiente: il castello occupa un’area preponderante rispetto a quella dell’intero abitato storico, apparente onnipresente da innumerevoli scorci che si affacciano inattesi su strade e stradine del borgo medievale.
Gradevolissima è l’impressione destata non solo dal suo aspetto maestoso, ma anche dalla fitta coltre di rampicanti che a seconda delle stagioni ne rivestono le pareti di un fresco verde o di un rosso fiammeggiante.
Due forti cinte di mura lo circondano: la prima, più ampia, racchiude tutto il borgo medievale e presenta un ponte in muratura che sostituisce l’antico ponte levatoio. Il secondo recinto, più interno, fu costruito per adeguare la difesa all’introduzione dell’artiglieria nella pratica bellica. E’ qui che, in fondo a piazza Mazzini si apre un portale cinquecentesco, dal quale si entra nel recinto del castello vero e proprio.
Percorsa una breve salita nel giardino, si giunge all’ingresso principale, che si apre alla base dalla seconda torre sul fronte settentrionale del castello. Al di sopra è incisa un’epigrafe che recita “Napoleone della gente orsina mi fondò. Respingo i colpevoli, difendo i buoni“. La porta è decorata con le tipiche rose stilizzate degli Orsini, alternate a grosse bugne, e sormontate dallo stemma di famiglia.
Sotto il pavimento dell’ingresso si cela una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, che attraverso appositi cunicoli veniva convogliata dai 50.000 mq che costituiscono la sterminata copertura del castello.
Nell’androne di accesso al cortile, sulla parete destra, era collocato un affresco di Antoniazzo Romano rappresentate scene di casa Orsini, staccato nel 1964 e trasferito all’interno, nella sala dei trofei di caccia.
Attraverso un arco ogivale si entra nella parte superstite della rocca dei Prefetti di Vico. Qui si apre la camera papalina, dove Sisto IV risiedette per qualche tempo, sfuggendo la peste romana del 1481. Il soffitto a grottesche appartiene alla scuola degli Zuccari (XVI secolo): fu dunque rifatto dopo che il castello passò agli Orsini.
Lasciata la rocca dei Prefetti di Vico, attraversato il cortile a pianta triangolare, si sale al piano nobile della parte del castello costruita dagli Orsini, che presenta una fuga di sedici sale, notevoli per le decorazioni pittoriche e per i soffitti a cassettoni dorati e policromi. Queste sale appaiono tutte arredate; non si tratta, però, dei mobili originali, ma di pezzi in stile qui collocati per dare a questa parte del castello, aperta ai visitatori, un’aria “vissuta” di indubbia efficacia, seppure non del tutto filologicamente esatta. C’è poi da chiedersi se l’introduzione di questi pezzi non distolga talvolta l’attenzione dei visitatori da opere d’arte ben più interessanti, come gli affreschi quattro-cinquecenteschi o i ricchi soffitti lignei.
Nella fuga di sale e saloni, decorati da maestosi camini rinascimentali ed oggi aperti a feste e convegni anche organizzati da privati, sono degne di nota le prime quattro, con cornici a stucchi e rilievi. Nella sala IV segnaliamo un trittico umbro del XV sec. Nella sala V è affrescato il ciclo delle figure femminili, sulla cui attribuzione erano forti incertezze, anche a causa di evidenti ridipinture eseguite in più punti nel secolo scorso.
Uno studio approfondito condotto in occasione di un’importante mostra sulla pittura a Roma e nel Lazio nel Quattrocento, organizzata nelle sale del castello nel 1981, oltre a confermare la datazione quattrocentesca della redazione originaria dell’affresco, ha consentito di circoscrivere l’attribuzione agli stessi autori del soprastante ciclo di Ercole. Siamo nella scuola di Antoniazzo Romano, anche se le scene briose ed a volte addirittura burlesche, con il tipico contorno delle figure sottolineato da una dinamica linea nera, fanno pensare al vivace pittore fiorentino Antonio del Pollaiolo.
Il ciclo appare una vera e propria celebrazione della donna e della natura: la prima va identificata con Bartolomea Orsini, signora forte e al tempo stesso ricca delle più classiche virtù femminili. Altrettanto importante è la celebrazione della natura, nella quale si svolgono scene idilliache di vita campestre e lacustre, che ci danno importanti informazioni sull’attività agricola e peschereccia della fertile Bracciano di allora. Ecco dunque la Raccolta del melograno, pianta ricca di significati simbolici come fautrice della fecondità o la Pesca nel lago, allusione alla fiorente attività che gli Orsini esercitavano non solo qui, ma anche nei loro possedimenti marini. Gite in barca, merende sul prato, il bagno nel ninfeo, la caccia di Diana, una partita a dama, il gioco della palla, una scena di tessitura, rappresentano i momenti salienti di un’esistenza di corte lieta e raffinata, anche se alquanto retrò. Dal’altra parte, i riferimenti alla mitologia classica costituiscono un chiaro aggancio alla cultura umanistico-rinascimentale ormai trionfante.
Nella sala VI, dei Trionfi di caccia, è stato collocato il grande dipinto con scene della vita di Gentil Virginio Orsini, un tempo nell’androne di ingresso al cortile. Sono qui illustrati due momenti particolarmente importanti della vita di questo esponente della casata: a sinistra è la Cavalcata dell’Orsini dopo la sua nomina a generale delle truppe aragonesi; a destra si trova la Visita di Piero de’ Medici a Bracciano nel corso del suo viaggio a Roma in occasione del matrimonio della sorella Maddalena con Franceschetto Cybo, figlio di papa Innocenzo VIII.
Il primo dipinto appare di notevole interesse per lo sfondo paesistico, costituito da un grande scenario montuoso, in cui le accidentalità del terreno sono sottolineate dallo svolgersi sinuoso di un lunghissimo corteo militare. Al centro, sullo sfondo di un cielo denso di nubi, domina il turrito castello orsiniano a picco sullo specchio del lago, caratterizzato della veduta di una medievale Anguillara anch’essa turrita Notiamo che il castello appare qui ancora incompleto nell’ala nord ovest, proprio quella nella quale si trova questa sala: l’importante elemento iconografico conferma la datazione fissata dai documenti. La parte destra, con la visita di Piero de’ Medici, oltre che dallo studio raffinato dei tipi e dei costumi, è caratterizzata dalla presenza di un grande arco a tutto sesto, di forma e decorazioni tipicamente rinascimentali. Si tratta di una costruzione di pura fantasia, che non trova riscontro con la reale architettura del castello, almeno per quanto è giunto fino a noi.
L’attribuzione pressoché unanime di quest’affresco ad Antoniazzo Romano è basata su di una lettera del pittore al signore di Bracciano, datata 1 gennaio 1491, dalla quale apprendiamo che l’artista si preparava ad eseguire nel castello un grande dipinto all’aperto, sotto un arco; ed era questa, come abbiamo visto, la collocazione originaria dell’opera.
Antoniazzo attribuì grande importanza ai lavori da eseguire a Bracciano, tanto da rinunciare a recarsi ad Orvieto, dove era stato chiamato ad eseguire nel duomo, nella cappella di San Brizio, quegli affreschi che saranno poi affidati a Luca Signorelli. Causa non ultima della decisione dell’artista fu con ogni probabilità il rango del committente: Antoniazzo, d’altronde fu sempre particolarmente attento ai risvolti commerciali della sua attività, tanto che non pochi critici gli hanno rimproverato con il passare degli anni, un certo inaridimento della vena artistica a vantaggio di una ripetitività di bottega.
Un altro genere di storie di famiglia è ricordato nella più piccola sala IX, detta di Isabella, con un soffitto riccamente dipinto e decorato a grottesche e riquadri. E’ questa la celebre camera rossa nella quale, secondo una leggenda assai gradita alla ghiotta curiosità dei visitatori, sembra che l’esuberante gentildonna ricevesse i suoi amanti di una notte, per poi liberarsene tramite un trabocchetto aperto nel corridoio adiacente, che scaricava le ignare vittime di questa mantide illustre direttamente nelle acque del lago.
Una stretta scala a chioccola porta al piano superiore, dove è degna di nota la sala XII, detta di Ercole, per il ciclo pittorico che corre in alto sulle pareti. Come il corrispondente ciclo delle figure femminili nella sala V, è suddiviso in diciotto episodi, separati da candelabre con tendaggi, che danno al dipinto un carattere scenografico. I cartigli in latino che commentano ciascun riquadro intensificano l’impressione di assistere ad una vera e propria rappresentazione. Il mito di Ercole aveva acquistato particolare rilievo nel Quattrocento: se ne erano occupati, fra gli altri, umanisti come Coluccio Salutati e Cristoforo Landino, per i quali Ercole era il simbolo della virtus romana, caratteristica figura rinascimentale in grado di fondere azione e contemplazione, coraggio e saggezza. Non è difficile immaginare che questa figura simboleggiasse lo stesso Gian Virginio Orsini, così come nella sala sottostante protagonista ideale del ciclo era la sorella del condottiero, Bartolomea.
L’ambiente più grosso di quest’ala è la sala XIII o dell’Armi: vi sono esposte, fra l’altro, un’armatura completa da torneo fabbricata a Milano nel XV secolo e due armature da torne tedesche del Cinquecento. Interessante anche il plastico, che consente di osservare l’architettura del castello nella sua complessità.
La visita non può dirsi completa senza aver percorso un giro sugli spalti lungo il cammino di ronda: lo stretto passaggio segue l’andamento delle mura raccordando le cinque torri cilindriche della costruzione orsiniana e la sesta, a pianta quadrata, appartenente alla rocca dei Prefetti di Vico, mozzata per motivi di sicurezza statica.
Non occorre spendere parole per celebrare il panorama che di qui si può ammirare, che lasciamo tutto alla vostra sensibilità. Ci limitano a sottolineare come questa visita dimostri con estrema evidenza l’importanza strategica del sito, e di conseguenza le ragioni per cui è stato al centro degli interessi di due fondamentali casate medievali.
Oggi, il castello appartiene agli Odescalchi. Poco si sa dei loro precedenti, è certo che acquistarono lustro nel 1676, con l’ascesa al trono pontificio di Innocenzo XI Odescalchi, che appoggiò con ogni mezzo, anche finanziario, la lotta degli imperatori Asburgo contro i turchi che avanzavano verso il cuore dell’Europa. In segno della sua gratitudine, l’imperatore Leopoldo conferì all’erede del papa, don Livio Odescalchi, il diploma di principe dell’impero, estensibile ai suoi discendenti. Ma don Livio non aveva discendenti diretti: alla sua morte il ducato di Bracciano passò al marchese Baldassarre Erba, figlio della sorella Lucrezia, a condizione che assumesse il cognome materno. Il lignaggio Odescalchi continuò così a vivere, anche se nel secolo scorso, nel 1803, il castello passò per alcuni decenni ai Torlonia, finché nel 1848 non tornò nuovamente in suo possesso.
Nella seconda metà del secolo Baldassarre Odescalchi si dedicò intensamente al restauro ed al mantenimento del castello, opera proseguita ai nostri giorni da don Livio IV. Questi, che ha dato all’utilizzo del monumento un carattere francamente imprenditoriale, è scomparso nel 1981, lasciando come erede una figlia.
Il castello è aperto tutti i giorni, con orari variabili a seconda della stagione.