Partire da Torino per queste vette è un’avventura da raccontare: l’occhio esperto sa distinguere, già dalla città, i profili del Ciarforon, della Tresenta, della Becca di Monciair, su quello sfondo da cartolina che è il massiccio del Gran Paradiso.
La pianura diventa fondovalle, poi canalone, tornante, bosco, pascolo, pietraia, fino ad aprirsi nella conca di Ceresole Reale.
In paese il Grand Hotel si staglia maestoso, forte della memoria dei nobili e illustri personaggi che l’hanno frequentato.
Il lago artificiale con la sua diga è l’emblema di un lavoro ciclopico, che ha avuto inizio nella prima metà del secolo scorso: l’idea di imbrigliare le acque dell’Orco e trasformarle in energia idroelettrica ha dato lavoro a centinaia di montanari, impedendone l’emigrazione, e ha permesso all’Azienda Elettrica Municipale di diventare protagonista sempre più rilevante nel panorama energetico del Piemonte, fino ad allora dominato quasi del tutto da imprese private. Ma è stato necessario sacrificare borgate e costruire le case altrove per far posto al bacino.
Dopo il lago, sullo sfondo delle tre cime delle Levanne, tra Italia e Francia, si apre un sipario che dischiude un mondo poco umano, fatto di vento e paesaggi, punteggiato di piccole pianticelle pioniere che sembrano miniature acquarellate. Gli stambecchi sono placidi e vigorosi, adattati alla vita da parco che li ha resi liberi di non avere paura. Sono il simbolo del primo parco nazionale realizzato in Italia, di cui festeggia ben 96 anni dalla fondazione, all’ombra del massiccio del Gran Paradiso.
Il parco nazionale del Gran Paradiso nacque nel 1922 dalle ceneri di una superba riserva venatoria dei Savoia e ne conserva le tracce in ogni vallata, dove le mulattiere reali e le palazzine di caccia, oggi destinate ad usi diversi, sono testimonianza degli illustri trascorsi. Alcuni sono a disposizione dei guardiaparco, che il mestiere ha portato a diventare bravi etologi: censiscono e catturano gli stambecchi per reintrodurli su tutto l’arco alpino; seguono gli spostamenti dei camosci attraverso i segnali trasmessi dai radiocollari; non sparano cartucce ma siringhe di anestetico da lontano, per ridurre al minimo lo stress dell’animale da catturare o marcare.
Percorrendo la strada del Nivolet si entra in un mondo di laghi, prima il Serrù e l’Agnel e poi, oltre il rifugio Savoia, gli spettacolari Leità e Rosset, originati dal torrente Orco, circondati da acquitrini e torbiere, da fischi di marmotte e grandiosi paesaggi.
Dopo il rifugio-albergo Savoia, ex palazzina reale di caccia fatta costruire da Vittorio Emanuele II, finisce la strada asfaltata. E’ un sospiro di sollievo: il pensiero va ai tempi in cui era stato proposto a gran voce il collegamento tra Piemonte e Valle d’Aosta con una carrozzabile che, attraverso il colle del Nivolet, avrebbe collegato la valle Orco con la Valsavarenche. Per fortuna non se ne fece nulla, e un lungo tratto di sentiero collega le due valli salvandole dal pericolo della comodità eccessiva. Così il vasto altopiano del Nivolet non è diventato luogo di passaggio mordi e fuggi, con i suoi specchi d’acqua tra i prati brulli, silenzioso e pulito, rimane meta privilegiata di camosci, stambecchi e marmotte. E, liberi dall’inquinamento luminoso, anche di chi ama passare la notte con la testa all’insù, a guardare le stelle.