Città d’arte e museo a cielo aperto, Roma offre anche molte opportunità ai turisti in cerca di emozioni forti. Dalle mummie agli strumenti di tortura, dalle armi del delitto ai cimeli apparsi in film horror fino ai presunti “segni” delle anime dell’aldilà, la città eterna assicura la pelle d’oca anche ai meno impressionabili.
Via del Gonfalone e più precisamente via Giulia, una delle strade più romantiche e adatte per una placida passeggiata, nascondono anche un museo molto importante per la città di Roma, ma al tempo stesso sinistramente affascinante. Si tratta del Museo Criminologico, meglio noto con l’acronimo Mucri, ed è stato eretto in questo luogo proprio in ricordo delle antiche carceri che nei tempi antichi i pontefici avevano fatto costruire in queste zone. Il visitatore più curioso di certi argomenti particolari troverà in questo edificio pane per i propri denti. I reperti che sono esposti in tale sede sono davvero molti, ma si possono citare alcuni esempi molto significativi: gli strumenti di tortura sono presenti in tutte le stanze, si va dalle gogne alla cosiddetta “vergine di Norimberga”, dalla briglia delle comari fino agli scudisci, alle fruste e ai diversi ferri, tutti oggetti che si sono succeduti in passato come mezzi per torturare o anche uccidere i condannati di alcuni reati. Grande stupore viene destato dalla divisa ufficiale utilizzata da Mastro Titta (si tratta di Giuseppe Battista Bugatti, noto anche come il “Boja di Roma”, esecutore materiale delle sentenze di morte nello Stato Pontificio e attivo fino al 1864); la stessa meraviglia può essere suscitata dal cranio di un criminale romano del passato, Giuseppe Villella (brigante morto nel carcere di Pavia nel 1972): su questo stesso cranio il noto criminologo Cesare Lombroso riuscì a dimostrare che la delinquenza era presente sin dalla nascita nel Villella, un fattore dimostrato con la scoperta della fossetta occipitale mediana.
Da manicomio a museo, l’ex Ospedale di Santa Maria della Pietà ripercorre 500 anni di storia dalla dalla sua fondazione in qualità di “Hospitale de’poveri forestieri et pazzi dell’Alma Città di Roma” alla definitiva chiusura nel 1999. All’interno di un impianto narrativo ispirato ad una multi testualità e ad una continua oscillazione tra elementi reali ed esperienze di laboratorio, esso non esaurisce la sua funzione nella conservazione delle memorie di un ex Ospedale Psichiatrico, utilizzando le storie di vita come paradigma di una storia antica ed attuale allo stesso tempo: prima tra tutte quella del pregiudizio nei confronti della diversità. Attraverso l’ascolto/visione delle videointerviste ai testimoni della storia del manicomio e le esperienze dirette che le installazioni interattive offrono, il visitatore è invitato a riflettere sui percorsi dell’esclusione sociale e a mutare/ripensare il suo atteggiamento nei confronti della diversità.
Museo poco conosciuto ma imperdibile per gli amanti dell’horror è quello che si trova a rione Prati, all’interno del “Profondo Rosso Store”, museo ideato nient’altro che dal maestro dell’horror Dario Argento. Fondato nel 1989, ospita delle riproduzioni di ambienti ed effetti speciali legati al cinema dell’orrore e del fantastico, nonché cimeli originali appartenuti sia a film diretti da Dario Argento che a quelli diretti da altri registi italiani e stranieri. Tra suoni e rumori agghiaccianti, il visitatore è accompagnato da una voce guida attraverso le piccole stanzette chiuse da cancelli in ferro che si aprono sul corridoio principale. Al finire della visita c’è l’accompagnatore che non mancherà di fare uno scherzetto horror conducendo l’ignaro visitatore davanti ad uno specchio stregato. Un vero e proprio museo non solo per gli estimatori dell’horror ma anche degli appassionati di cinematografia.
In Lungotevere Prati la piccola chiesa del Sacro Cuore del Suffragio, ispirata al Duomo di Milano, custodisce un museo unico al mondo: quello delle anime del Purgatorio. Allestito in un locale adiacente alla sacrestia, raccoglie tutti i documenti e testimonianze che proverebbero l’esistenza del Purgatorio e delle anime di defunti che vi soggiornano, in attesa di ascendere in Paradiso. Questa piccola raccolta si deve alla ricerca del missionario francese Victor Jouet, che decise di girare l’Europa alla ricerca di testimonianze dell’esistenza ultraterrena dei defunti e dei loro contatti con i congiunti viventi. Il fatto scatenante fu l’incendio della cappella avvenuto nel 1897: quando l’incendio venne spento, una testa di uomo rimase incisa sopra uno dei pilastri dell’altare ed il sacerdote si convinse che quella sconcertante immagine fosse un “segno” di un’anima del Purgatorio e decise di dedicarsi con fervore a studi specifici. All’interno del museo si può ancora osservare la riproduzione fotografica di questo evento, insieme a panni, stoffe, tonache, papaline, breviari, camicie da notte e tavolette di legno gelosamente custodite entro bacheche, che narrano dunque le apparizioni dei defunti al cospetto di congiunti scettici, testimoniate dalle impronte delle loro mani “marchiate a fuoco” a futuro ricordo e memento. La raccolta di misteriose tracce dell’aldilà messa insieme dal religioso annovera in realtà solo una decina circa di reperti in quanto per molto altro materiale reperito le autorità ecclesiastiche ritennero insufficienti le prove d’autenticità raccolte. Una delle reliquie con le impronte più nitide è la camicia da notte appartenuta a Giuseppe Leleux di Wodecq che reca impressa sulla manica la bruciatura della mano della madre morta nel 1762. L’evento sovrannaturale sarebbe avvenuto nel 1789 quando la defunta apparve al cospetto del figlio durante la notte, rimproverandolo per la vita dissoluta che stava conducendo e per il fatto di averla dimenticata nelle sue preghiere. Il figlio rimase così colpito dalle parole dello spettro da dedicarsi da allora in poi alla Chiesa tornando sulla retta via e morendo addirittura in odore di santità. Tra i documenti esposti si può osservare la fotocopia di una banconota da dieci lire, in parte bruciata, che lo spirito di un sacerdote trapassato avrebbe lasciato tra l’agosto e il novembre del 1920 nel monastero di San Leonardo di Montefalco, insieme ad altre ventinove banconote, per convincere i suoi confratelli a fargli dedicare una messa. Questo piccolo ma strabiliante museo non potrà fare a meno di suggestionare anche il visitatore più scettico.
Proprio al centro di Roma, a poca distanza da via Veneto, si trova un ossario sconosciuto anche a molti romani: il cosiddetto Ossario Barberini o Cripta dei Frati Cappuccini. Opera d’arte singolare, realizzata verso la prima metà del XVIII secolo, la Cripta nacque dall’esigenza pratica di fare posto ai nuovi defunti nel piccolo cimitero del convento e quindi trovare una giusta collocazione per le ossa dei frati riesumati. In un lungo corridoio in cui si aprono sei ambienti, sono stati raccolti i resti mortali di circa 3.700 defunti, per lo più frati cappuccini morti tra il 1528 e il 1870 e recuperati dalle fosse comuni del vecchio cimitero dell’Ordine dei Cappuccini che si trovava nella Chiesa di Santa Croce e Bonaventura dei Lucchesi, ai piedi del Quirinale. Tradizione vuole che la terra di questo cimitero sia santa, perché trasportata qui dalla Palestina o addirittura da Gerusalemme. La particolarità di questa cripta sta però nella sua realizzazione: le ossa sono disposte dando vita a precise composizioni artistiche e geometriche, di gusto rococò, che danno vita a rosoni, lesene, stelle, fiori, festoni e persino a lampadari e ad un orologio. Si dice che lo stesso marchese De Sade rimase fortemente colpito da tali composizioni. Nelle diverse cappelle si trovano alcuni corpi di frati mummificati con indosso il saio, tipico vestito del loro ordine; di alcuni di essi si conosce addirittura il nome, ad esempio: tre piccoli scheletri sono i pronipoti di Urbano VIII, un altro è il principe Matteo Orsini vestito con il saio e ancora, la principessa Barberini che con la mano destra sorregge una falce e con la sinistra una bilancia. Il messaggio della caducità della vita terrena è qui espresso attraverso un linguaggio tanto crudo quanto artistico.
Ospitato all’interno dell’ospedale più antico della capitale, l’ospedale di S. Spirito in Sassia, attivo sin dall’inizio del Duecento per la cura degli infermi, dei trovatelli e dei bisognosi, questo museo costituisce una delle più importanti testimonianze di carattere storico e scientifico sull’arte della medicina. Unico nel suo genere, e documenta con accuratezza il percorso che lentamente portò la medicina, la chirurgia e la farmacologia dall’ambito originario della magia a quello scientifico. Il museo si articola in una serie di ambienti legati ai nuclei delle collezioni: la Sala Alessandrina (con le tavole anatomiche del ‘700); la Sala Flaiani (con preparazioni anatomo-patologiche della fine del XVIII sec. e modelli in cera); la Sala Capparoni (con ex voto romano-etruschi, farmacie portatili, vasellame di farmacia del XVI-XVII sec.); la Sala Carbonelli (con strumenti chirurgici romani per uso oculistico e ostetrico e una raccolta di microscopi d’epoca).Negli oggetti esposti, i visitatori che si interessano di storia della medicina possono trovare una dettagliata documentazione non solo dell’arte chirurgica ma anche di quella ostetrica e farmaceutica, nonché delle malattie che hanno colpito gli uomini nel passato. I reperti più impressionanti dell’intera struttura, sono senz’altro quelli conservati nella sala Flaiani: qui si trovano alcuni impressionanti preparati anatomici, a secco e in formalina, di diverse malformazioni natali; scheletri fetali; feti mummificati o sotto liquido ed una ricca collezione di cere anatomiche. La sala ospita anche una collezione di preparati anatomici più antichi, realizzati con tecniche desuete e dall’effetto finale curioso e straniante. In queste teche spiccano alcuni feti siamesi mummificati.
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