C’erano una volta le vacanze “vecchio stile”, quelle che oggi guardiamo con una certa nostalgia mista a incredulità, quasi fossero una leggenda di un tempo lontano.
Non esistevano smartphone, né tantomeno i siti di prenotazione online. Google Maps? Fantascienza. Eppure, i nostri genitori e nonni riuscivano lo stesso a organizzare viaggi, magari con una precisione che oggi farebbe invidia persino al Furio di Bianco, rosso e Verdone. Certo, non sempre il processo era privo di intoppi, e anzi, spesso il vero viaggio cominciava ben prima di salire sull’auto o sul treno: iniziava nella pianificazione, con un’attenzione ai dettagli che rasentava la mania.
Organizzare una vacanza, all’epoca, richiedeva tempo, pazienza e una buona dose di ottimismo. Prima di tutto, si doveva decidere la meta, e questa decisione spesso passava attraverso il consiglio di parenti e amici, che raccontavano le loro esperienze di viaggio con dovizia di particolari, o tramite l’ispirazione data da riviste e dépliant. Gli opuscoli turistici, raccolti con meticolosità dalle agenzie di viaggio, erano il Pinterest dell’epoca: immagini patinate, testi accattivanti e promesse di paradisi in terra che spesso si scontravano con la realtà di pensioni spartane o alberghi non esattamente all’altezza delle aspettative.
A giocare un ruolo fondamentale nell’organizzazione c’erano le agenzie di viaggio. Questi luoghi, veri templi della pianificazione, erano il punto di riferimento per chi cercava aiuto o semplicemente voleva ridurre il margine di imprevisti. Le agenzie erano fornite di cataloghi patinati, ricchi di foto idilliache e descrizioni dettagliate delle destinazioni più in voga. Si entrava, si sfogliavano brochure e si lasciava che l’agente di viaggio, con il suo sorriso rassicurante, prendesse in mano la situazione. Prenotava treni, alberghi e perfino escursioni, assicurandosi che tutto fosse perfetto. Era una figura che univa l’efficienza di un organizzatore e il calore di un consulente, pronto a risolvere ogni dubbio con un “Non si preoccupi, ci penso io”.
Ma non tutti si affidavano alle agenzie. Molti preferivano partire all’avventura, fidandosi del destino e delle proprie capacità: prenotare un albergo era un’operazione che oggi potremmo definire “artigianale”.
E qui si entra in un aspetto interessante della mentalità dell’epoca: trovare un alloggio all’ultimo momento era spesso più semplice di quanto si possa immaginare oggi. In un’epoca in cui le vacanze erano meno frequenti e le persone si muovevano meno, gli alberghi raramente raggiungevano il tutto esaurito. Le famiglie partivano con l’auto carica di valigie, fermandosi direttamente nelle località desiderate, certi che, una volta arrivati, avrebbero trovato una stanza libera. Si passeggiava lungo le strade principali, cercando cartelli con la scritta “Camere libere” o chiedendo direttamente alla reception degli alberghi. Certo, c’era il rischio di imbattersi in qualche struttura non proprio all’altezza delle aspettative, ma questo faceva parte del gioco.
Al contrario c’era chi dopo aver sfogliato guide turistiche o aver consultato elenchi telefonici, sceglieva un numero da chiamare, rigorosamente da un telefono fisso, con carta e penna alla mano. La conversazione con l’albergatore era un piccolo teatro: ci si informava sui prezzi, si chiedevano dettagli sulla posizione e sui servizi, il tutto condito da un linguaggio formale e un po’ impacciato. Il clou arrivava quando si doveva bloccare la prenotazione: si inviava un vaglia postale come caparra, sperando che tutto fosse andato a buon fine. Non c’erano conferme immediate via mail o notifiche push, solo l’attesa fiduciosa di un mondo che, in qualche modo, funzionava.
Una volta scelto l’alloggio, iniziava la pianificazione del viaggio. Senza navigatori satellitari, l’orientamento era una vera arte, una disciplina che mescolava intuito, esperienza e cartografia. Le cartine stradali, quelle pieghevoli e perennemente difficili da richiudere, erano le compagne inseparabili di ogni automobilista. Chi non ricorda quei momenti in cui si apriva una mappa enorme sul cofano dell’auto, con un dito puntato su una località e l’altro che tracciava un percorso ipotetico, mentre qualcuno in famiglia esclamava: “Qui giriamo a sinistra!”? E c’era sempre quel parente, in pieno stile Furio, che proponeva deviazioni improbabili per “tagliare” e risparmiare chilometri, spesso finendo perso in qualche sterrato.
Durante il viaggio, le cose si complicavano ulteriormente. Le indicazioni stradali, per chi non conosceva bene i luoghi, erano un’avventura, le uscite autostradali erano temute come trappole e i cartelli diventavano oggetti di venerazione. Se ci si smarriva – perché ci si smarriva, immancabilmente – si chiedeva aiuto al primo passante disponibile, che dava indicazioni con un linguaggio fatto di gesti e riferimenti locali (“Dopo il bar del Gino, prendi la seconda a destra”). Chi viaggiava in treno o in pullman si affidava ai tabelloni delle stazioni e ai biglietti acquistati in anticipo, possibilmente con una prenotazione telefonica o direttamente allo sportello.
Non c’erano recensioni online a guidare le scelte. Gli imprevisti facevano parte del pacchetto vacanze: una camera con vista sul parcheggio invece che sul mare, un ristorante consigliato dal cugino che si rivelava una bettola, o la scoperta che l’hotel non accettava carte di credito e richiedeva contanti, rigorosamente prelevati prima della partenza. Tutto ciò era vissuto con una filosofia diversa, più incline all’accettazione e all’adattamento.
Eppure, c’era qualcosa di magico in quel modo di viaggiare. La lentezza della pianificazione, la sorpresa di scoprire un luogo senza averlo già esplorato virtualmente, il gusto di chiedere informazioni alle persone e non a uno schermo. Si era forse più vulnerabili, ma anche più aperti agli imprevisti e alle connessioni umane. E così, anche se arrivare sani e salvi a destinazione poteva sembrare un’impresa, alla fine era proprio il viaggio – con le sue sfide e i suoi piccoli trionfi – a renderlo indimenticabile.
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