La cucina di Pistoia raccoglie e rielabora secondo il proprio stile molti dei piatti caratteristici delle province limitrofe, in particolare Firenze. Prevale comunque la cucina di montagna: in particolare, funghi, “complici” della bontà di numerosi piatti locali, castagne, frutti di bosco, specialmente mirtilli. Qui le ricette ruotano intorno a una cucina popolare, fatta di ingredienti locali e facilmente reperibili, e come tutte le culture gastronomiche che nascono da pochi e poveri elementi, la fantasia e l’arte prendono il sopravvento combinandosi insieme per realizzare piatti dalle radici profonde destinate a durare per sempre.
Importanti sono dunque le materie prime, derivanti dalle terre coltivate delle colline circostanti, dai pascoli prevalentemente di pecore e dai boschi che offrono castagne e funghi, tra gli ingredienti caratterizzanti la cucina locale. Sulla linea della cucina Toscana e con ovvie commistioni con questa, la cucina pistoiese si avvale di ingredienti genuini, combinati bene e ben cucinati.
Tra le ricette più tipiche Pistoia offre il carcerato. L’originale nome di questo piatto può suscitare iniziali perplessità sulla sua bontà…è pensier comune, infatti, che i carcerati non fossero, e non siano, nutriti con deliziosi manicaretti. In effetti questo piatto ha origine proprio nel carcere pistoiese di Santa Caterina, che si trova accanto a quelli che un tempo erano i macelli comunali. Qui, una volta macellata la carne, si gettavano resti e interiora (le cosiddette rigaglia) nel sottostante fiume Brana, su cui si affacciava, appunto, anche il carcere, dove secondini e detenuti ottennero il permesso di appropriarsi di tali scarti per rendere più saporito e sostanzioso il loro abituale pane e acqua. Questo piatto consiste, infatti, di una zuppa di pane raffermo bollito nel brodo di interiora di carne (solitamente vitello, servite all’occasione come secondo piatto), cui oggi vengono aggiunte verdure, come cipolle, carote, sedano, pomodori e una manciata di formaggio grattato con pepe.
La zuppa di pane alla pistoiese, piatto di origine povera, ora piatto pregiato, va a inserirsi tra le numerose zuppe di pane raffermo e verdure tipiche di tutta la Toscana. Una ricetta che nasce per recuperare il pane ormai vecchio di qualche giorno a cui si aggiungono verdure (zucchine, carote, verza e patate) e fagioli borlotti per ottenere una pietanza sostanziosa e nutriente. È molto simile alla sua vicina ribollita, che però prevede una preparazione più lunga, con varie fasi di cottura.
Ingrediente nobilitato nella cucina pistoiese è il sangue del maiale: con questo si prepara il tipicissimo biroldo, un insaccato realizzato con le parti meno pregiate del maiale amalgamate nel suo sangue insieme a un misto di sale, pepe, noce moscata, finocchio selvatico, cannella e anice stellato che gli danno un gusto molto speziato.
Il sangue del maiale è usato anche per i migliacci, una sorta di crêpe a base di sangue di maiale (nella preparazione si aggiungono anche brodo di maiale e farina). I migliacci si gustano dolci, spolverati di zucchero, oppure salati con il formaggio.
Per la festa di San Jacopo, patrono di Pistoia, si mangiano i maccheroni di pasta fresca al sugo d’anatra. Si tratta di un delizioso piatto unico, preparato con pasta fresca all’uovo, tagliata a quadratini e condita con il sugo dell’anatra che, fatta a pezzettini, accompagna i maccheroni. L’anatra viene usata come condimento per la pasta e come carne per la seconda portata.
Scendendo verso il capoluogo i rilievi si ingentiliscono e la collina si colora di vitigni, che regalano vini eccezionali. Dove la vite cede il posto all’ulivo, questa terra non fa minor sfoggio della sua fertilità, spremendo uno dei migliori oli regionali, il Toscano Montalbano, ideale complemento di zuppe di fagioli e farro.
Venendo ai piatti più comuni, un tradizionale antipasto è costituito dalla farinata con le leghe, cavolo cotto con acqua e farina di mais, oltre a tutta la vasta gamma di crostini, di polenta o fegatini di pollo. I primi piatti sono soprattutto zuppe e minestre, ottima quella di riso e lenticchie. Per quanto riguarda i secondi, vi è una consolidata tradizione di polente e piatti unici con carne e verdura, mentre l’utilizzo della carne si dispiega in saporiti stracotti e polpettoni.
Tra questi, la cioncia è una specialità tipica della città di Pescia, situata ad una manciata di chilometri da Pistoia e, come ogni piatto toscano che si rispetti, trae le sue origini dalla buona abitudine del ‘un si butta via nulla, come si dice proprio a Pescia!
Infatti, la cioncia è un piatto ricavato dalle parti callose del muso del vitello (orecchie, guance, ecc), cucinate per diverse ore con gli odori, quali sedano, cipolla, carota e servite calde, a bagnare delle fette di pane raffermo (e rigorosamente abbrustolito) adagiate su terrine di terracotta. L’origine di questo piatto risale ai tempi delle concerie, presenti e attive nella città fin oltre la metà del ’900; qui i vitelli venivano letteralmente scarnificati, affinché le pelli venissero lavorate e i resti delle carni adeguatamente preparati e cucinati, per esser poi degustati nelle tipiche osterie del periodo, chiamate bettole.
Tra le paste, sono molto apprezzate le tagliatelle di farina di castagne. Quest’ultime, provenienti dall’Abetone, sono le assolute protagoniste anche della pasticceria locale, che ha nel castagnaccio il dolce simbolo. A base di farina di castagne sono i famosissimi necci, crêpes di farina di castagne ripiene di ricotta e arrotolati come dei cannoli. A ogni fiera ed evento in città sono presenti, un’eccellenza nel cibo di strada pistoiese. Ancora con la farina di castagne si prepara il berlingozzo, un ciambellone dolce tipico del periodo di Carnevale.
Tra i contorni dobbiamo citare i fagioli di Sorana al fiasco. Questi fagioli, prodotti appunto a Sorana, un paesino abbarbicato sulle colline pesciatine il cui microclima ne favorisce la coltivazione e l’unicità nel suo genere, sono stati insigniti del marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta) a garanzia della loro qualità. Questa ricetta rappresenta il modo più tradizionale di cucinarli: è necessario un fiasco, privato della paglia o della plastica, riempito con i fagioli secchi, della salvia, dell’aglio non sbucciato, del buon olio extra vergine di oliva, sale e acqua per tre quarti. Una volta tappato con del cotone affinché non si apra, il fiasco deve essere adagiato a fianco del fuoco di un camino o sulle ceneri, per permettere all’acqua di evaporare (e mai di bollire, ricordate!) La cottura sarà ultimata dopo diverse ore.
Per quanto concerne i prodotti tipici, il baricentro rimane sempre fisso su Abetone. Dalla marmellata, rinomata in tutta la Toscana per la propria freschezza, alla raccolta dei mirtilli, grande attrazione nel periodo di agosto e che dà il là anche ad un Festival che anima la montagna durante l’estate per conoscere il prodotto, saperlo raccogliere e degustarlo al meglio.
Proprio la Montagna Pistoiese è una delle aree più rinomate d’Europa per la produzione del mirtillo nero selvatico.
Ovviamente non può mancare la produzione bovina, con formaggi freschi e a latte crudo che si possono degustare in tutti i rifugi (la maggior parte dei quali sono aperti sia in estate che inverno). Molte aziende a conduzione familiare, invece, sono conosciute ed apprezzate per dolci freschi e pasticceria.
Tra i dolci, non potete perdere i brigidini, originari di Lamporecchio, comune in provincia di Pistoia. Sono delle cialde color giallo-arancio dalla superficie curva, molto friabili, di circa sette centimetri di diametro. Gli ingredienti della pasta usata per fabbricarli sono: zucchero, farina, uova ed essenza liquida di anice. Questo dolce è reperibile nella quasi totalità delle fiere, manifestazioni e sagre toscane (e spesso anche in altre regioni), nei luna park e in altre situazioni simili, venduto da ambulanti che lo preparano sul momento con un apposito macchinario automatizzato che, tramite pistoni ad aria compressa, preme la pasta sulle formelle di alluminio con inciso il disegno da riprodurre sulla cialda, per poi staccare dalla piastra il brigidino appena fatto tramite uno sportello. Una volta raffreddati e induriti (appena fatti sono malleabili), i brigidini vengono poi confezionati in tipici sacchetti trasparenti dalla forma stretta e allungata. La leggenda vuole che alcune monache seguaci di Santa Brigida (da qui deriva il nome “brigidini”), addette alla preparazione delle ostie per la Comunione, un giorno decisero di concedersi un piccolo “piacere di gola”. Come impreziosire un’ostia? Aggiungendo all’originale ricetta uova, zucchero e anice!
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